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Istanbul, città di fiori e incanti

ono quasi le sei del pomeriggio a Istanbul, città di fiori e incanti, unica al mondo divisa su due continenti: l’Europa e l’Asia. Sono arrivata all’aeroporto di Sabiha Gokcen (in onore della prima donna al mondo che diventò aviatrice militare nel 1936) con Pegasus, a trovare l’amica del cuore che sta facendo l’Erasmus a Istanbul. Vengo avvertita dall’autista (gentile e peloso) della navetta Havabus, che ti porta dall’aeroporto alla città, di essere arrivata a Kadikoy, un quartiere di Istanbul, sito nella parte asiatica della città. C’è il tramonto di una bellezza inesauribile, avvolto dal panorama sul mar di Marmara, dove inizio a scattare due fotografie.

 

 

Ha l’aria di un mercato in chiusura. Mi ritrovo in mezzo a una corrente di uomini, donne con bambini, turisti, gatti e tassisti che non la smettono di suonare il clacson. Salta fuori, da non so dove, un ragazzo che prova a vendermi l’ananas seguito da un signore che mi invita a salire sulla bilancia.

È la seconda volta che visito Turchia (Alanya), non mi meraviglia più l’anima commerciale del turco.

Abbiamo preso un dolmush, un taxi condiviso che è una specie di pulmino giallo, per raggiungere il quartiere di Feneryolu, dove ha un’enorme appartamento in affitto. Dopo cena, siamo uscite in un pub nel quartiere residenziale di Caddebostan, pieno di localini e ristoranti carini, poco frequentato da turisti. Ho assaggiato il raki, bevanda nazionale a base di uva o prugna aromatizzata con l’anice e menta. Non mi ha impressionata. Mi viene detto che con il raki di solito si pasteggia (spero diluito con acqua). Ho pensato che non è il caso di andare a dormire, è solo mezzanotte e voglio fare almeno altri due passi nel quartiere. Entriamo in un altro locale dove si fuma narghilè e si beve il tè. Faccio caso che non c’è nemmeno una donna.

 

Vengo svegliata dalla preghiera, che viene diffusa per 5 volte al giorno dai minareti, le torri presente nelle moschee, dalle quali il muezzin (persona addetta alle moschee) chiama alla preghiera i devoti di Allah. Mi viene preparata la colazione turca, buonissima, con diversi tipi di formaggi o salumi, olive e un uovo sodo.

La cosa buffa sono le pattatine fritte per colazione.

 

Decido di andare a visitare il centro storico di Istanbul, che corrisponde alla zona dell’acropoli di Costantinopoli, per raggiungere Sultanahmed, il fulcro della città. Salgo sul battello, che formicola di gente, da Kadikoy per raggiungere il quartiere di Eminonu, nella parte europea della città. Mi godo il panorama del mare con i suoi gabbiani che garriscono e, da lontano intravedo la moschea Yeni Cami.

 

fermata eminonu

Rimango stupita da questo quartiere colorato e strapieno di turisti e tulipani, dove mi sento spensierata e tranquillità tra artisti di strada e zingare che suonano, tra venditori di fiori o pannocchie di mais bollito accanto a luoghi di interesse storico.

Non intravedo la noia nei volti turchi, non c’è ne delusione né crisi, ridono e ti osservano. Sono talmente gentili, direi asfissianti, caratterizzati da un nazionalismo esasperato.

Mi trovo di fronte a uno dei principali monumenti di Istanbul, la Basilica di Santa Sofia (Aya Sofya) nata come cattedrale cristiana dedicata alla Divinità della Sapienza, inaugurata dall’imperatore Giustiniano nel 537. Trasformata in moschea nel 1453 da Maometto II durante la presa di Costantinopoli, che fece aggiungere dei minareti e coprì i mosaici alle pareti. Oggi è un museo, trasformato da Mustafa Kemal Ataturk (il primo Presidente turco) nel 1935, che fece rimuovere l’intonaco che copriva i mosaici.

 

Non è la solita chiesa, non è la solita moschea, non è il solito museo, non è la solita cupola.

Tutto è insolito, i simboli religiosi islamici convivono in sintonia perfetta con i simboli cristiani e la “Vergine con Bambino” si abbina alla perfezione con otto grandi medaglioni appesi alle pareti che riproducono i nomi dei Profeti musulmani.

 

Dopo un paio di ore, mi ritrovo alla Cisterna Basilica (523), in turco Yerebatan Sarayi (palazzo sommerso), lunga circa 140 metri, illuminata da diffuse luci rossastre che rendono meno intenso il colore delle 336 colonne che spuntano dall’acqua. Tra le colone mi soffermo su due, che poggiano sulla testa di Medusa intenzionalmente una di profilo e un’altra capovolta (una delle tre Gorgoni, che aveva il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il suo sguardo). Prima di uscire faccio delle foto ricordo vestita alla turca, da mettere sul comodino del salotto.

 

 

Ho fame e mangiare a Istanbul è la cosa più semplice al mondo.

Mi sono fermata in un posticino che preparava il “pide” la deliziosa pizza turca e come antipasto, su consiglio della mia amica, ho provato la zuppa di lenticchie con limone.

 

Sazia e soddisfatta, mi dirigo verso l’imponente e affollata Mosche Blu, che ha preso il nome dalle finissime maioliche di Iznik presenti sulle pareti interne, esattamente 21.043 di colore blu e verde, illuminate dalla luce che filtra attraverso 260 piccole finestre nella sala della preghiera. C’è un odore potente e continuo di spezie e sudore che ti stronca il fiato.

 

 

Ho la sensazione che Istanbul è anche la città degli accompagnatori e dei fotografi, cioè coloro che ti accompagnano seguendoti, che ti aspettano mentre compri qualcosa o ti fanno foto senza dare nell’occhio. Forse ho esagerato con il rossetto, si sa che le sensazioni sono personali.

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